La Bambina che non voleva far niente

Una volta, in una quinta elementare, una bambina, che negli incontri precedenti aveva sempre lavorato con gli altri, si mise da parte e rifiutò di fare qualsiasi cosa. Il mio lavoro aveva lo scopo di favorire, in ciascun allievo, l’emergere di un sentimento di appartenenza al gruppo-classe. Si trattava di creare un clima di benessere relazionale che sarebbe tornato a vantaggio di tutti, insegnanti e allievi. Gli strumenti usati erano di tipo non-verbale come il gioco, l’animazione teatrale e l’animazione musicale. Naturalmente era importante che tutti partecipassero. Quando la bimba si mise da parte, mi risentii e pensai a un rifiuto verso di me e verso il lavoro che stavo facendo; questa considerazione mi stava spingendo a intervenire bruscamente, ma mi fermai in tempo. Evitando accuratamente di sottolineare questo comportamento di isolamento davanti al gruppo, con sguardi o con parole, spostai la mia attenzione laterale su di lei e intanto continuai a condurre il lavoro con gli altri. Erano presenti in me due sentimenti: da una parte ero contrariato, ma dall’altra qualcosa m’impediva di intervenire. Decisi alla fine di non fare assolutamente nulla nei suoi confronti, e lei fu libera di partecipare o no. Rimase in disparte guardando distrattamente i compagni per tutto il tempo, assorta nei suoi pensieri. La settimana seguente venni a sapere che quella mattina aveva assistito all’arresto di suo fratello e ne era rimasta talmente impressionata da non riuscire evidentemente a spostare l’attenzione dal ricordo di quella drammatica vicenda. Quando venni a conoscenza di questa circostanza fui felice di non avere agito d’impulso, “spontaneamente”, e di non avere fatto alcuna pressione su di lei, sgridandola affinché giocasse con gli altri. 

Quello che mi aveva impedito di fare interventi inopportuni era stata un’operazione mentale di riflessione sui sentimenti e le convinzioni presenti in me stesso. Avevo preso contatto con la sensazione di fastidio che provavo nei confronti del rifiuto della bambina a lavorare con gli altri, sensazione che mi spingeva a intervenire. Ma al tempo stesso avevo sentito la sua ferma determinazione a non partecipare, come se avesse un forte bisogno di rimanere sola con se stessa. Inoltre, esaminando le mie credenze, mi ero accorto di oscillare fra due posizioni. Da una parte ritenevo necessario che ogni allievo eseguisse le consegne che davo al gruppo; ma dall’altra mi dicevo che, in ultima analisi, l’allievo è una persona libera e in quanto tale può anche decidere di non aderire alla richiesta dell’adulto. La prima premessa mi spingeva a intervenire facendo pressione e anche sgridando, la seconda mi dava la possibilità di non intervenire. Una mancanza di attenzione da parte mia a questi aspetti della realtà in gioco avrebbe potuto avere conseguenze molto spiacevoli. La bambina, se si fosse sentita costretta a fare quello che in quel momento – per ovvie ragioni – non poteva fare, mi avrebbe percepito come cattivo, come una persona da evitare, e questo sentimento avrebbe condizionato negativamente il mio rapporto con lei non solo in quell’incontro, ma anche in quelli successivi.

 

Questo episodio può essere considerato un esempio di attenzione da parte dell’insegnante.

Dal libro Le porte dell'attenzione di Settimo Catalano Ed. Chiara Luce