Il bambino che piangeva sempre e la bambina che non parlava mai

Entrando in una classe di prima elementare (1980) per l’incontro iniziale, l’insegnante, che mi attendeva sulla porta, mi prese in disparte e mi informò velocemente che fra i suoi allievi c’era un bambino che piangeva ogni volta che qualcuno si rivolgeva a lui e una bambina che se ne stava sempre zitta. Aveva tentato in tutte le maniere di far loro cambiare atteggiamento, ma ogni sollecitazione a non piangere e a parlare aveva portato solo a peggiorare la situazione. L’insegnante si mostrava molto preoccupata, così le chiesi di indicarmi, senza farsi notare, i due bambini in questione; quindi entrai nell’aula e cominciai a lavorare con il gruppo-classe, facendo attenzione a non rivolgermi direttamente a loro due. Dopo il momento iniziale, dedicato a valorizzare tutti gli interventi spontanei dei bambini e a giocarci sopra per animare la classe, proposi di fare una scenetta. L’edificio della scuola era una vecchia villa patrizia e la classe un’ampia stanza con un enorme camino non più utilizzato, con i bordi rifiniti lussuosamente in marmo. Dissi che il camino era un castello, e chiesi ai bambini chi volesse fare la guardia del castello. Quasi tutti si proposero. Ne scelsi due, che aiutai a sistemarsi in piedi ai bordi del camino. A questo punto presi una sedia e la misi dentro il camino dicendo che in quel castello viveva un re infelice che piangeva sempre. Quindi andai verso il bambino indicatomi precedentemente dall’insegnante e gli dissi di venire a fare il re che piangeva sempre. L’insegnante aveva proprio ragione; infatti, quando finii di parlare, il bambino era già in singhiozzi. Per nulla intimorito dal pianto gli dissi: «Eccezionale! Stai piangendo proprio bene, devi continuare a piangere così».  Lo presi per mano e lo feci sedere sulla sedia dentro il camino, e poiché lui continuava a piangere aggiunsi: «Devi proprio continuare a piangere così, perché sei il re che piangeva sempre». I compagni erano sbalorditi e confusi, perché pensavano che io fossi realmente convinto del fatto che lui piangesse “per finta”, solo perché gli avevo detto di piangere, e non mi fossi accorto che invece piangeva veramente. C’era molta tensione fra loro, ma vedendo che io continuavo con calma a organizzare la scenetta qualcuno mi disse: «Ma sta piangendo davvero!». «Perfetto! Piangere è proprio quello che deve fare». Poi presi una seconda sedia, la misi all’altro lato del camino e mi avvicinai alla bambina indicatami dall’insegnante come quella che stava sempre zitta. In silenzio, la presi per mano facendole segno di seguirmi. Lei si lasciò condurre docilmente, e accettò di sedersi sulla sedia appena sistemata. «Lei farà la regina», dissi rivolgendomi agli altri. Poi, guardandola: «Tu sei la regina che stava sempre in silenzio, quindi devi cercare di non parlare, anche se io o qualche tuo compagno o le guardie o il re ti dovessimo rivolgere la parola. Attenta: non devi mai, in nessuna circostanza, parlare». A questo punto, rivolgendomi direttamente a lei, le chiesi come si chiamava; lei naturalmente non mi rispose e io mi complimentai perché era riuscita a stare in silenzio. Il pianto del re si continuava a sentire, anche se era meno intenso, e la bambina seduta sulla sedia, che aveva il problema di non riuscire a parlare, mostrava sul proprio volto una certa tensione. Allora, rivolgendomi a tutti, chiesi: «Sapete perché in questo castello il re piange sempre?» Dopo un attimo di esitazione a qualcuno balenò un’idea e disse: «Perché sua moglie, la regina, sta sempre zitta!» «bravo! E sapete perché la regina sta sempre zitta?» «Perché il re piange sempre!» risposero in coro e, sia per la tensione che per la paradossalità di tutta la situazione, scoppiarono in una sonora risata. Nel frattempo il re smise di piangere e la regina cominciò a sorridere. Allora, rivolgendomi con decisone in tono di rimprovero, prima all’uno poi all’altro, dissi: «Ma come, tu devi piangere come facevi prima». «E tu perché muovi le labbra, non sai che chi non parla tiene le labbra strette per non farsi uscire le parole?». Poiché il re adesso faceva solo finta di piangere, dissi: «Ma come, devi piangere come facevi prima! Non ti ricordi come facevi? Ti stropicciavi gli occhi con le dita, tenevi la testa china...» Gli descrissi in quale modo piangeva e lo indirizzai a rifare gli stessi gesti. Era chiaro che non si era mai accorto di come faceva a piangere e così era in seria difficoltà a rifare i gesti che prima compiva spontaneamente. La bambina intervenne pronunciando qualche parola per aiutarlo a piangere come faceva prima. «Ma adesso ti ci metti anche tu, guarda che tu sei la regina che non parla, come facciamo a fare la scenetta se continui a parlare?» Insistetti ancora un po’, ma alla fine uno non ne voleva sapere di piangere e l’altra di stare in silenzio. Così inserii nuovi personaggi nella scenetta e continuai a lavorare anche con gli altri. La storia naturalmente ebbe un lieto fine, perché il re, vedendo che la regina aveva ricominciato a parlare, smise di piangere e la regina, vedendo che il re non piangeva più, aveva ricominciato a parlare. Alla fine mi mostrai però un po’ dispiaciuto di questo finale, e dissi: «Peccato che sia finita così, perché tu eri proprio bravo a piangere e tu un’artista nello stare in silenzio; ma le cose vanno come devono andare». L’insegnante si sorprese di questa mia conclusione; poi le spiegai che era un modo di sottolineare il fatto che erano finalmente usciti dal ruolo. Negli incontri successivi, appena mi vedevano, mi facevano grandi sorrisi, quasi a volermi ringraziare di averli liberati da un incubo. Dopo un anno dalla fine del mio intervento (che era consistito in 10 incontri di un’ora) andai a salutare i bambini di quella classe. I primi due che mi corsero incontro e mi saltarono in braccio furono proprio loro.