Il  feedback di Lucia

Questo percorso di formazione io l'ho vissuto appunto come un viaggio iniziato controvoglia, proseguito con entusiasmo e concluso a malincuore. L'idea di mettermi in gioco, di espormi mi turbava non poco: mi procurava ansia e nello stesso tempo mi affascinava. Perciò sono stata più volte tentata di accampare qualche scusa per non partecipare. In quest'altalena di dubbi, è stato soltanto dopo un lungo e travagliato patteggiamento con me stessa che ho trovato la forza di rompere gli indugi e di "partire". E ora, alla fine del viaggio, sono qui, ancora con la valigia in mano, a tentare di ricostruire l'esperienza appena vissuta. Ma come farlo?  Non è facile trasferire su carta il groviglio di pensieri, sensazioni, stati d'animo che hanno caratterizzato questi giorni. Quali le parole? Le sole che mi vengono in mente sono quelle che hanno scandito e connotato ogni tappa del viaggio:

LO SPAZIO/ IL TEMPO/ I SILENZI/ LE PAROLE/ LA FIDUCIA/ IL GIUDIZIO/ LE RELAZIONI/ LE EMOZIONI qui disposte in successione per comodità di esposizione e non per importanza giacché gli elementi e le situazioni che esse descrivono, nella realtà dell'esperienza, si intrecciavano continuamente, come fili di una stessa trama.

LO SPAZIO

Era quello circoscritto da noi disposti in un cerchio di cui eravamo l'inizio, la fine, il confine. Dentro quello spazio io sentivo fluttuare i nostri pensieri e i nostri sentimenti, i nostri disagi e i nostri timori, la nostra fragilità e la nostra forza e, a volte, la nostra confusione. Al di fuori c'era una realtà altra, estranea che non ci apparteneva, tanto che le interferenze esterne, per fortuna poche, sembravano profanazioni di quel luogo che per me aveva via via acquisito una sorta di sacralità.

IL TEMPO

All'inizio dilatato, abnorme, un'eternità, 20 ore, da riempire. Come? Con o di che cosa? Prevaleva la percezione di un tempo reale lungo, lunghissimo che mi sembrava un inutile sacrificio da offrire alla Divinità-Formazione a scapito dei miei alunni e della mia famiglia. Ma, dal gong iniziale a quello finale, progressivamente si andava affermando una percezione psicologica del tempo, di "quel" tempo.

"Cosa, abbiamo già finito l'unità di lavoro? Siamo già al break? Ma perché, poi, tutte queste pause? Per scaricarsi e ricaricarsi, ovvio! Sì, ma siamo già al secondo giorno! Da domani il tempo non lo avremo più. Tiranno, il tempo che fuggiva e mi sfuggiva mi lasciava l'amaro in bocca, la sensazione di non averlo usato bene, di non averlo sfruttato fino in fondo.

I SILENZI

Durante le attività destrutturate i silenzi hanno assunto connotazioni diverse. Apparentemente vuoto e imbarazzante, il silenzio iniziale in realtà stava generando dentro di me una ridda di pensieri che si affastellavano nella mente come un puzzle scomposto. "Cosa dico? Cosa mi aspetto che facciano gli altri? Sarò in grado di esprimere ciò che sento? Se lancio un messaggio qualcuno lo coglierà? E se sarà un altro a farlo, riuscirò io a rilanciare?"

Poi... c'è stata la... liberazione! Quando, finalmente, è stato infranto, il silenzio si è trasformato in una preziosa occasione di ascolto attivo, di percezione dell'altro come diverso e dunque portatore e donatore nel contempo di altre emozioni, di altri sentimenti. Il silenzio allora per me non era più vuoto e disagevole ma si caricava di considerazioni, di riflessioni, dello sforzo a volte immane di riconoscere le emozioni che provavo e di tentare di definirle, nella consapevolezza che chiarirle a me stessa significava poi esplicitarle agli altri, in un primo tentativo di conoscenza e di relazione. Era quindi un silenzio a tratti anche sconvolgente, ma sempre rigenerante che mi forniva la chiave d'interpretazione di quel mio essere lì, in quello spazio e in quel tempo, IO con gli altri per dar vita, tutti insieme, ad un NOI.

LE PAROLE

Facili, facilissime e molte, moltissime durante le attività strutturate. Il perché di tanta abbondanza è comprensibile: c'era finalmente un compito da svolgere, un problema da risolvere che per un poco metteva in uno stato di quiescenza i nostri animi in subbuglio e permetteva a me di parlare più liberamente perché mi sentivo rassicurata, quasi protetta dalle parole dei miei compagni. Durante le attività destrutturate invece le parole assumevano forma e consistenza. A volte leggere come piume, mi accarezzavano l'anima, ma poi volteggiavano nell'aria; altre volte invece erano pietre... pietre pomici che l'anima, seppur delicatamente, me la graffiavano... selci appuntite che mi laceravano… macigni che mi opprimevano, tanto sembravano inamovibili. Eppure, più le parole erano "pesanti", incisive, più cresceva in me il desiderio di esprimere i sentimenti e le emozioni che esse avevano suscitato e che mi facevano viva partecipe.

LA FIDUCIA

Più naturale accordarla agli altri che a me stessa. D'altronde perché non avrei dovuto dare fiducia a persone che stavano vivendo la mia stessa esperienza e con cui condividevo scopi e aspettative? Che dire invece di quel rossore che mi saliva alle guance ogni volta che mi accingevo a parlare? Inizialmente, incontrollato e incontrollabile, mi metteva in imbarazzo perché mostrava palesemente i miei turbamenti le mie incertezze. Con il passare del tempo, però, diventava sempre meno importante, sempre meno protagonista e andava via via scemando. Stavo forse imparando a tenerlo a freno? Stava forse cambiando quella parte di me che spesso mi aveva impedito di esplorare nuove situazioni e nuove relazioni, nel timore di non essene all'altezza e nella considerazione che l'approccio sarebbe stato condizionato quella la spia che dichiarava apertamente la mia insicurezza? Senza dubbio il clima di fiducia e di condivisione creatosi nel gruppo cominciava a sortire i suoi effetti... ed io mi scoprivo a desiderare che altro tempo mi fosse regalato per acquisire ulteriore fiducia in me stessa e per donarne ancora agli altri.

IL GIUDIZIO

Non c'era! C’erano soltanto dei feed-back che tracciavano e illuminavano il cammino. Come mi sentivo leggera, libera com'ero di esprimere pensieri ed emozioni, senza il timore di essere valutata, giudicata, criticata! lo ero lì che mettevo a nudo la mia anima senza paure e senza remore, che mi spogliavo dei ruoli sociali per essere semplicemente PERSONA, una persona desiderosa di capirsi e di capire per meglio dare e meglio ricevere.

LE RELAZIONI

Cos'era il desiderio di ascoltare l’altro per scoprirlo, per conoscerlo, per comprenderlo se non un primo, embrionale tentativo di dar vita ad una relazione? L'ascolto attivo, attento, empatico era la possibilità, più volte donatami, di entrare nel mondo dell'altro, un mondo a volte affine al mio, altre volte meno, ma sempre in grado di arricchirmi, se è vero che dal confronto con la diversità conosciamo meglio noi stessi. E anche laddove l'ascolto non c'era perché le parole non venivano pronunciate, a parlare erano la mimica e i gesti: uno sguardo subito sfuggito o uno d'intesa, un sorriso complice o uno ironico, un sospiro, uno sbadiglio...   

Ascoltare allora significava osservare e, ancora, conoscere, capire. Imparare ad ascoltare veramente, con la mente e con il cuore, senza giudizi né pregiudizi, è stato sicuramente l’apprendimento più significativo. Sento ancora dentro di me l'eco del "Tu hai detto...". Semplici eppure geniali, queste tre piccole parole. Quando venivano pronunciate sortivano effetti magici: spalancavano usci ancora socchiusi oppure chiudevano porte appena aperte. Perciò sempre, prima di pronunciarle o subito dopo averlo fatto, mi costringevano a pensare, a riflettere e a ricercare i termini più precisi per tradurre i miei pensieri. Il "tu hai detto...", infatti, per me consisteva non nella meccanica ripetizione delle parole dette dall'altro e neanche in una rielaborazione personale, ma piuttosto nell'assimilazione del vissuto dell'altro al mio, nella certezza che era l'empatia la chiave d'accesso alle relazioni. E le relazioni pian piano si sono stabilite, certo non tutte della stessa intensità, se al momento del congedo ci siamo stretti in un abbraccio con la promessa di non perderci.

LE EMOZIONI

Tante. Alcune sfumate, incerte; altre nette, immediate, facilmente riconoscibili; altre ancora tumultuose, laceranti. Ognuna di esse mi scavava dentro, mi costringeva a esplorarmi, m’insegnava sempre più ad aprire gli occhi del cuore. La difficoltà maggiore era nel loro riconoscimento, nella loro definizione, tanto che spesso non riuscivo a trovare il significante che desse a ciascuna il suo significato più vero, più profondo. Eppure non mi arrendevo: troppo grande era il desiderio di chiarezza! E provavo a dare loro un nome: ansia, timore, imbarazzo, indignazione, gratificazione, fiducia... ma quanti i tentativi andati a vuoto! Come definire, infatti, quelle più complesse in cui si mescolavano caratteristiche dell'una e dell'altra? E come spiegare quelle che mutavano mentre mi accingevo a esprimerle?

 

A conclusione del viaggio alla domanda: "Cosa ti porti a casa?", ho risposto "un mare in tempesta". Perché? Perché io amo il mare: il mare è infinito, il mare è profondo, il mare è vita. E amo anche la tempesta che prima scuote e distrugge e poi costringe a ricostruire. Ancora oggi il mio mare è in tempesta...

Non so quando e se si placherà né se voglio che questo accada, ma sono certa che quando succederà mi si apriranno nuovi orizzonti che mi permetteranno di raggiungere mete generative di nuove mete.