Il protagonista assoluto

Qualche anno fa (1984), in una classe di terza elementare, conobbi Marco, un bambino affetto da sindrome di Down, che si comportava in modo molto simpatico finché era al centro dell’attenzione, ma che mi impediva sistematicamente di lavorare con il resto della classe quando questo ruolo gli veniva tolto. In pratica si rifiutava di fare qualsiasi cosa con gli altri e di rispettare regole comuni. Per due incontri fui costretto a coinvolgerlo continuamente in quello che si faceva, come protagonista quasi assoluto. Sembrava che, per lui, gli altri non esistessero se non come spettatori delle sue “performance”. In realtà non era in grado di giocare con gli altri, perché per lui non esistevano regole; anzi, era chiaro che trovasse gratificante proprio il fatto di non rispettare le regole che gli altri seguivano. Mi posi come obiettivo quello di portarlo a cambiare questa sua posizione. Così, decisi che nel terzo incontro avrei iniziato il lavoro rivolgendomi a tutta la classe e che non appena lui avesse avuto il solito atteggiamento accentratore, avrei lasciato lo spazio fisico dell’intera aula a sua disposizione per fare quello che voleva; con gli altri allievi mi sarei trasferito in un altro spazio. Esposi il mio progetto all’insegnante e le chiesi di collaborare rimanendo con Marco quando noi fossimo usciti, per osservare quello che il bambino faceva e per cogliere il momento opportuno per farlo riflettere sul suo rapporto con i compagni. In particolare appurare se i compagni fossero per lui importanti, e se era disposto a fare qualcosa per stare in loro compagnia. Nell’incontro successivo le cose andarono come previsto e, non appena lui cominciò le sue performance, gli dissi: «Vedo che fai tutto quello che vuoi come se i tuoi compagni, la tua maestra e io non ci fossimo, quindi per non disturbarti ce ne andiamo a lavorare da un’altra parte e lasciamo l’aula a tua disposizione». Lui fece finta di non sentirmi, e continuò imperterrito con i suoi comportamenti bizzarri. Allora mi diressi alla porta e i compagni, vedendo che facevo seriamente, mi seguirono. Ci trasferimmo nell’aula di psicomotricità̀ e cominciammo a lavorare con l’animazione teatrale. Avevamo già iniziato da una ventina di minuti e tutti erano coinvolti, quando si sentì bussare, e Marco si affacciò alla porta con l’insegnante. Con un tono deciso, mostrando una certa sorpresa, gli chiesi: «Come mai sei qui?».  Non gli lasciai il tempo di rispondere e aggiunsi: «Avevi a tua disposizione lo spazio della classe per fare quello che volevi e la maestra tutta per te, come mai hai voluto ugualmente raggiungerci?». Lui era fermo sulla porta e mostrava un atteggiamento perplesso come se stesse effettivamente cercando una risposta. Per aiutarlo a pensare continuai: «Dimmi la verità̀, preferisci giocare da solo o con i tuoi compagni?» «Mmm... con i miei compagni» «Se vuoi giocare veramente con i tuoi compagni, è necessario fare una piccola fatica, cioè quella di rispettare le regole comuni. Vediamo se mi sono fatto capire: prova a ripetere quello ti ho appena detto» «Mmmmm» «Ho detto che per giocare con gli altri è necessario... ris...» «...rispettare le regole» «bene, sei disposto a rispettare anche tu le regole come gli altri?» «Mmm... Sì» «Sei proprio sicuro?» «Sì» «Va bene, allora la regola in questo momento è che Sandra, Alberto e Laura stanno rappresentando una scenetta e che gli altri devono osservarli senza parlare. Siediti con gli altri e guarda anche tu.» Lui si sedette e aspettò pazientemente il proprio turno per diventare protagonista in un’altra scena. Da quel giorno mantenne il suo coinvolgimento con gli altri e non creò più̀ seri problemi. In questo intervento fu indispensabile la collaborazione dell’insegnante, che lo fece riflettere su quanto fossero importanti per lui i compagni. La maestra mi raccontò che Marco, quando era rimasto solo con lei, dopo pochi minuti aveva interrotto le sue performance e si era preoccupato di sapere dove fossero andati i suoi compagni. L’insegnante gli aveva detto che erano andati a lavorare da un’altra parte per lasciarlo libero di fare quello che voleva, ma Marco aveva cominciato a chiedere insistentemente di raggiungerli. Allora l’insegnante l’aveva fatto riflettere sul fatto che rimanendo in classe avrebbe potuto agire liberamente, mentre raggiungendo i compagni avrebbe dovuto ascoltare anche gli altri e rispettare le regole comuni. Visto che Marco pareva disposto a fare questa fatica, la maestra lo aveva accompagnato nell’aula di psicomotricità dove io l’avevo messo nelle condizioni di verbalizzare, al suo livello, il fatto che scegliere di stare con gli altri comportava anche l’impegno di rispettare le regole del gruppo. Questo dialogo si svolse davanti a tutti i compagni, affinché tutti capissero che per giocare veramente insieme è necessario il rispetto delle regole del gioco. Fu un momento di presa di coscienza non solo per Marco, ma per tutto il gruppo-classe. Per “voler bene” al loro compagno, era necessario farlo sentire realmente nel gruppo sollecitandolo a rispettare le regole comuni. Permettergli di fare tutto quello che voleva, non era una cosa buona, ma era anzi proprio un modo per escluderlo. Inoltre risultò chiaro a tutti che Marco desiderava stare con i compagni e non si divertiva per niente da solo, e, in forza di quest’attrazione, si poteva pretendere la sua adesione alle regole del gruppo. In effetti, la situazione nella classe cambiò, e Marco non impose più le sue performance, mostrandosi più disponibile ad ascoltare gli altri.