La bambina muta solo a scuola

Nel mese di aprile del 1981 mi trovai a preparare l’inserimento nella scuola elementare di un bambino affetto da autismo infantile di nome Paolo, che avevo già seguito per due anni alla scuola materna. Le due scuole erano adiacenti. Il direttore era d’accordo che Paolo familiarizzasse con gli spazi della sua futura scuola elementare e conoscesse anche le sue future maestre, in modo tale che ci fosse un passaggio graduale da una scuola all’altra. Avevo programmato un incontro settimanale di un’ora con le maestre nell’aula di psicomotricità per tutti gli ultimi tre mesi di scuola. Durante il primo incontro, l’insegnante, che avrebbe preso l’anno seguente la prima elementare in cui sarebbe stato inserito Paolo, mi disse che nella sua classe attuale, una quinta elementare, c’era una bambina di nome Viola che per tutta la materna e le elementari era rimasta in silenzio. Tuttavia il problema del “non parlare” si presentava solo con le persone che avevano a che fare con la scuola, mentre a casa parlava. Gli chiesi se esisteva un inquadramento diagnostico, e mi rispose che la bambina era affetta da “mutismo elettivo”. Rimasi sconcertato dal fatto che l’insegnante parlava di questo disturbo come se si trattasse di una vera e propria malattia cronica. Dal mio punto di vista, malgrado la lunga durata del disturbo, si trattava semplicemente di un “incidente” relazionale, a causa del quale la bambina aveva cominciato a non parlare durante i primi giorni di scuola materna, e progressivamente era caduta in una sorta di ruolo estremamente rigido, dal quale non era più riuscita a tirarsi fuori. Viola alla fine venne considerata “la muta”. Più i compagni e le insegnanti si rapportavano a lei come se fosse muta, più lei era portata a corrispondere, non parlando. Questa dinamica relazionale aveva fatto in modo che la bambina assumesse un ruolo talmente rigido che, per otto lunghi anni, le insegnanti non le avevano mai sentito pronunciare nemmeno una parola e avevano avuto da lei solo risposte scritte. La diagnosi di mutismo elettivo aveva aggravato la situazione, trasformando un ruolo assunto rigidamente in una vera e propria malattia istituzionalizzata, con tanto di nome. ora tutti sapevano che Viola era ammalata di “mutismo elettivo”, e la bambina non poteva che fare la muta. Tutto ciò era assurdo e, visto che l’anno seguente la bambina avrebbe dovuto frequentare le scuole medie, era urgente intervenire per far sì che, con il cambio di scuola, potesse modificare il suo ruolo. Chiesi un incontro con i genitori, che furono ben contenti della possibilità che offrii loro1. Anche il direttore della scuola si mostrò d’accordo, nonostante qualche perplessità, visto che mancavano solo tre mesi alla fine delle lezioni. Chiesi all’insegnante di aiutarmi somministrando alla classe, con opportune istruzioni, un sociogramma2, per individuare la persona più aperta e comunicativa della classe. Con questo strumento si identificò una certa bambina. Poi l’insegnante, il giorno in cui mi fossi trovato a lavorare con Paolo nell’aula di psicomotricità, avrebbe detto ai suoi alunni che uno psicologo aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a giocare con un bambino che se ne stava sempre in disparte, lontano dagli altri. A questo punto avrebbe scelto prima la bambina più “desiderata” della classe, precedentemente individuata con il sociogramma, e poi Viola; quindi avrebbe detto loro di scendere nell’aula di psicomotricità. Il giorno dell’incontro andò tutto per il meglio e quando l’insegnante chiese chi voleva scendere, le due bambine in questione erano fra quelle che avevano alzato la mano. Così, mentre avevo già iniziato a lavorare con il bambino autistico, sentii bussare alla porta. Avevo composto con cerchi e mattonelle di legno un percorso circolare sul quale Paolo camminava cercando di non perdere l’equilibrio, aiutato, quando lo richiedeva, da me. Lasciai un momento Paolo e mi avvicinai alla porta, la aprii, e dissi subito alle bambine: «bene, vi stavamo aspettando. Stiamo giocando a camminare su un percorso. Per favore, dovreste cercare di lavorare senza dire una parola, perché Paolo si distrae subito e si innervosisce quando sente parlare». Quindi, presi un tamburo e uno xilofono e dissi alle due bambine: «Tu suona il tamburo non appena Paolo mette il piede in un cerchio, e tu suona lo xilofono quando cammina sulle mattonelle; se esce dal percorso, non suonate». Questo “percorso sonoro” piaceva molto a Paolo che lanciava versetti di contentezza e le bambine, che seguivano attentamente, in breve furono assorbite dal gioco. «Fate proprio dei bei suoni, in modo davvero preciso», dicevo loro. ogni tanto mi preoccupavo di ricordare alla compagna di Viola che non doveva parlare. Per Viola non ce n’era evidentemente bisogno. Dopo il percorso facemmo un altro gioco. Poiché Paolo in quell’occasione si dondolava frequentemente e spesso batteva le mani, associammo a questi due movimenti rispettivamente il suono del flauto e quello del tamburo. Quando si dondolava, dicevamo che faceva l’uccellino sul ramo che canta, e una delle due bambine suonava il flauto. Quando batteva le mani, dicevamo che erano i passi della tigre, e allora Viola batteva il tamburo ritmicamente; se non faceva questi due movimenti stavamo tutti in silenzio, senza suonare. Paolo capì velocemente il gioco, e si divertiva così a far cantare l’uccellino o a far camminare la tigre. ogni tanto mi rivolgevo alle bambine e dicevo: «Siete molto brave a fare i suoni degli animali, vi ringrazio perché mi state proprio aiutando». Ed era vero.  Infine, con una certa trepidazione, scambiai gli strumenti alle due bambine: Viola si sarebbe accorta che suonando il flauto avrebbe, anche se indirettamente, fatto qualcosa che esulava dal suo ruolo di “muta”? Si sarebbe rifiutata di suonarlo? Io mi comportavo in maniera decisa e facevo intendere con il mio comportamento, verbale e non verbale, che era scontato che lei l’avrebbe fatto. Inoltre, per distrarla dalla situazione “emissione di un suono”, le dissi di mettere tutta l’attenzione nell’iniziare a suonare proprio nello stesso momento in cui Paolo cominciava a dondolarsi, e di smettere di suonare proprio nello stesso momento in cui Paolo interrompeva il movimento, altrimenti non avrebbe capito la connessione fra i propri movimenti e i suoni. Insistetti molto su questo e poi aggiunsi: «Vi raccomando di non parlare assolutamente!» Non appena Paolo cominciò a dondolarsi, Viola suonò il flauto e così continuò a fare ogni volta che questi riprendeva a dondolarsi. Il gioco era bello, Paolo era molto simpatico nei suoi movimenti, e le bambine si divertivano. Dopo un po’ dissi a Viola: «Stai suonando il flauto proprio bene!» Il gioco continuò, e dopo qualche minuto aggiunsi, sempre rivolto a Viola: «Canta proprio bene questo uccellino!» ora Viola sembrava a suo agio nel produrre il suono dell’uccellino; quindi, dopo qualche altro minuto osai dirle: «Questo uccellino ha una voce proprio bella, parla proprio bene». Anche dopo questa affermazione Viola continuò a suonare. Sembrava anzi che queste mie frasi sulla “bella voce” e su “come parla bene l’uccellino”, le facessero piacere. Alla fine venne il momento di salutarci. A questo punto si verificò un fatto particolare: Paolo fece capire chiaramente che gradiva solo la presenza di Viola, perché spinse fuori dalla porta l’altra bambina. Ne approfittai per dire a Viola che il bambino preferiva giocare solo con lei, e le chiesi se era disposta a tornare ad aiutarmi. Quindi senza aspettare una risposta dissi: «Vedo che mi dici che vuoi tornare. Ti aspetto allora fra una settimana!» Il primo incontro era andato oltre ogni più lusinghiera aspettativa; infatti Viola non aveva mai dovuto confermare il suo ruolo di “muta” perché non gliene avevo dato l’occasione. Inoltre le avevo detto indirettamente più volte che aveva una bella voce e che parlava bene, e in questo modo le rinviavo un’immagine di lei che parlava. Infine con la frase: «Vedo che mi dici che vuoi tornare», mi ero comportato come se lei mi avesse realmente risposto. Per un’intera ora si era trovata nell’impossibilità di affermare il suo ruolo di muta. Per farlo, vista la situazione che avevo creato, avrebbe dovuto parlare. L’unico pericolo era che la compagna pronunciasse qualche frase del tipo: «Lei non parla!»: per questo ero stato particolarmente attento, ogni volta che accennava a parlare, a ricordarle che era necessario stare assolutamente zitti. L’incontro seguente non avrebbe presentato problemi a questo riguardo, visto che Viola avrebbe giocato da sola con Paolo. Alla bambina più scelta della classe questa piccola frustrazione – il sentirsi rifiutata da Paolo – non avrebbe dovuto causare problemi, essendo la più desiderata dai compagni. Anche per questa eventualità avevo chiesto precedentemente all’insegnante di fare un sociogramma: avevo bisogno di qualcuno maturo da un punto di vista relazionale, in grado di seguire le mie indicazioni e di reggere più degli altri a eventuali frustrazioni. In breve, per i tre mesi successivi, il mio intervento consistette nel creare situazioni tali per cui l’immagine che rimandavo a Viola era sempre quella di una bambina che parlava. Per fare questo, dovetti mantenere una costante attenzione al mio modo di interagire con lei, per non darle alcuna occasione di mostrarmi il suo ruolo di “muta”. Le situazioni che creavo erano tali per cui Viola per comunicarmi che “era la muta”, avrebbe dovuto usare le parole. Dopo il secondo incontro mi presentai a casa sua, dove questa condizione di mutismo non era presente, e con estrema disinvoltura la salutai. Ero già pronto a comportarmi come se mi avesse risposto realmente e a procedere con la conversazione, quando lei mi rispose con un “ciao”. Era uscita dal ruolo!* Davanti ai suoi genitori la elogiai per l’aiuto che mi stava dando, poi dissi che, vista l’intesa che si era creata, sarebbe stato importante lavorare con Paolo anche alla scuola materna. I genitori, istruiti da me precedentemente, non fecero alcun accenno ai problemi del mutismo, e accettarono di buon grado gli apprezzamenti sulla loro figlia e la nuova proposta. Alla scuola materna lavoravo settimanalmente con Paolo e con tre o quattro compagni del suo gruppo-classe nell’aula dei giochi. Il lavoro consisteva nell’allenare i bambini a mettersi in relazione fra loro superando le difficoltà di comunicazione presentate da Paolo. Usavo come strumento vari tipi di gioco, da quello motorio a quello di drammatizzazione. Quando mi presentai con Viola, i compagni di Paolo furono molto contenti di trovarsi una bambina grande e la trattarono un po’ come una “mammina”, facendosi aiutare e chiedendole protezione. Naturalmente si aspettavano che parlasse, non essendo a conoscenza della sua condizione. Viola, vedendosi considerata come una che parla, sia da me (con il quale, peraltro, aveva già parlato), sia dai bambini, fin dalle prime richieste prese a rispondere anche verbalmente, e così cominciò a parlare per la prima volta in un ambiente scolastico. Questa nuova conquista era importante poiché si trattava della stessa scuola materna che lei aveva frequentato da piccola, e dove era caduta nel ruolo di “muta”. Viola, fino a quel momento, non aveva rivolto la parola a nessuna delle persone, adulti o bambini, che frequentavano la scuola materna o la scuola elementare, neanche se le incontrava al di fuori degli edifici scolastici. ora che era riuscita a parlare alla materna, forse avrebbe potuto farlo anche in quella elementare. Un giorno, mentre riaccompagnavo a casa Viola, vidi al chiosco dei gelati adiacente alla scuola Natalia, l’insegnante di sostegno che avrebbe avuto Paolo come allievo per l’anno seguente e che io conoscevo da tempo. Viola sapeva, perché l’aveva vista spesso, che era un’insegnante. Fermai la macchina, scendemmo e ci avvicinammo al chiosco. Prima di salutare Natalia, chiesi a Viola: «Vuoi un gelato?» «Sì». Poi, rivolto a Natalia: «Ciao Natalia! Staresti un attimo con Viola, ho dimenticato di fare una cosa a scuola. Torno subito». Viola s’era accorta troppo tardi della presenza dell’insegnante e, visto che ormai s’era fatta sentire, continuò a parlare anche con Natalia, la quale si fece dire quali gusti di gelato voleva. Era la prima volta che parlava con una persona della sua scuola elementare: il ghiaccio era rotto. Dopo qualche settimana da questo episodio, la madre di Viola mi riportò questo discorso della figlia, a proposito della gita scolastica che avrebbe dovuto fare: «In gita vorrei parlare con le mie compagne, ma se lo facessi chissà cosa succederebbe dopo tutti questi anni in cui non ho rivolto loro la parola!» Era chiaro che Viola cominciava a desiderare di uscire dal suo ruolo anche con le compagne di classe, ma in gita tutti si aspettavano che facesse la muta e lei di conseguenza non parlò. Agli esami di quinta successe però un fatto apparentemente sorprendente: disse agli esaminatori esterni che voleva fare l’esame oralmente, ma da sola, senza i suoi compagni e la sua maestra. Fu accontentata e fece l’esame orale. Alle medie mi preoccupai di raccomandare al preside di inserirla in una classe dove non ci fosse stato nessuno dei suoi compagni delle elementari e, se fosse stato possibile, di metterla addirittura in un’aula su un piano differente, in maniera tale da ridurre al minimo la possibilità di incontrare qualcuno che la conosceva come la “muta”. Queste indicazioni vennero realizzate e fin dal primo giorno Viola parlò. Finalmente poté abbandonare definitivamente questo ruolo di “muta”, che per tanto tempo le era gravato addosso. Com’è possibile vedere da questo esempio, il ruolo è il frutto di un’interazione con gli altri; con un’attenzione alla realtà relazionale e con opportune modifiche nello scambio reciproco dell’immagine che rimandiamo all’altro, è possibile aiutare qualcuno a uscire da un certo ruolo. Va sottolineato che è il gruppo a sostenere un ruolo, nel senso che se tutto il gruppo, per abitudine, vede quel suo componente in un certo modo, la persona in questione è di fatto costretta, se vuole essere presa in considerazione, a comportarsi conseguentemente. Questo spiega come mai Viola volle fare l’esame senza il suo gruppo-classe.

 

Note

Il costo del mio intervento sarebbe stato a carico della Fondazione Vimercati, Ente morale per il quale lavoravo in quel periodo.

Il sociogramma è uno strumento sociometrico che richiede a ciascun allievo di esprimere, in forma scritta e riservata, delle preferenze verso i compagni di classe secondo determinati criteri.

* Il suo ruolo di “muta a scuola” comportava il fatto di non parlare con nessuna persona che avesse a che fare con la scuola, quindi neanche con me. D’altra parte l’avevo colta di sorpresa e messa in confusione circa il ruolo da assumere, perché mi ero presentato all’improvviso a casa sua, dove era abituata a rispondere normalmente. Dopo quel “ciao”, almeno con me non avrebbe più potuto ristabilire il ruolo.

Dal libro "Le porte  dell'attenzione" Settimo Catalano Ed. Chiara Luce