La Bambina che tirava calci

Racconto spesso questo episodio perché lo trovo molto significativo. Diversi anni fa (1982), entrai in una classe (terza elementare) per il mio consueto intervento, finalizzato allo star bene insieme. Al termine del primo incontro, tutti sembravano molto contenti; in particolare mi colpì l’entusiasmo di una bambina che si era mostrata più attiva di tutti. Al momento del commiato, mentre gli allievi stavano uscendo dall’aula (era l’ultima ora della mattina), la bambina in questione mi si avvicinò e mi tirò con forza un calcio, appena sopra la caviglia. La sorpresa fu tale che, invece di reagire istintivamente, mi misi a pensare alla stranezza del fatto. Com’era possibile che la bambina più coinvolta nell’esperienza, che era riuscita a imporsi e a instaurare un rapporto privilegiato con me, avesse una reazione così bizzarra?

 

Formulai velocemente l’ipotesi che si aspettasse da me una reazione di rabbia: forse si era fatta l’idea che gli adulti si arrabbiano facilmente. Con quell’estrema modalità di comunicazione era come se mi dicesse: «Sì, mi hai fatto divertire, ma sarai anche tu come tutti gli altri adulti: basta provocarti che viene fuori l’altra faccia della medaglia».Non mi ero ancora ripreso dalla sorpresa che cominciò a darmi altri calci. Allora iniziai a scappare lì intorno mettendo il massimo di attenzione per evitare di farmi prendere. Contemporaneamente le dissi: «Giochiamo: tu cerchi di prendermi con i piedi e io scappo». Così, intanto che i bambini si mettevano in fila, noi facevamo questo “gioco”. Eravamo tutti e due molto concentrati: lei cercava di raggiungermi con le sue pedate e io di evitarle. I compagni e l’insegnante erano sconcertati in quanto non riuscivano a comprendere se si trattasse veramente di un gioco. D’altra parte io non solo non la sgridavo ma, al contrario, la incitavo e quando riusciva a toccarmi con i piedi, le dicevo: «brava!» Poi riprendevo a scappare con rinnovato impegno. Alla fine l’insegnante le disse che era ora di andare; lei ubbidì docilmente e si avviò all’uscita della scuola insieme agli altri. Una settimana dopo anche il secondo incontro andò benissimo, ma al termine si ripeté la stessa scena: ora però il gioco cominciava a piacere anche a qualche altro bambino che si unì a lei nel darmi calci e per me, anche se correvo più velocemente di loro, il gioco divenne impegnativo; riuscii comunque a evitare la maggior parte dei calci. Alla fine del terzo incontro, questo gioco si ripeté nuovamente. ora, però, molti partecipavano ed era chiaro che quanto stava accadendo era percepito da tutti come un gioco. I bambini si erano convinti che io non solo non mi arrabbiavo, ma anche mi divertivo; era come giocare a “prendersi” con i piedi al posto che con le mani e i calci dati persero la loro connotazione violenta. Poi arrivò il momento di mettersi in fila per uscire, allora accadde un fatto sorprendente: con un tono di voce dolcissimo la stessa bimba che un attimo prima si era mostrata così aggressiva nel prendermi a calci, mi disse: «Mi dai la mano?» Tanto avevo sentito rabbiosi i suoi calci, tanto sentivo piena di affetto questa sua richiesta. Fui preso da un’intensa commozione e, tenendola per la mano, la accompagnai all’uscita dove aspettammo insieme la madre. Tutta la sua collera si era sciolta in affetto. Ogni volta che ricordo questo episodio riprovo un’intima commozione: in realtà quella bimba, malgrado l’apparente voglia di fare male, aveva un forte bisogno di voler bene e si tormentava all’idea che bastasse un ‘niente’ per far cambiare l’affetto nel suo opposto. La rabbia dell’adulto viene infatti percepita dal bambino come un’interruzione del volersi bene. Ma questo volersi bene a corrente alternata può provocare un grande sconforto. Così, per evitare il pericolo che l’affetto finisca bruscamente, ci si difende interrompendo di proposito tutte le situazioni affettivamente coinvolgenti. Questo meccanismo inconscio tende a difendere la persona da vissuti affettivi spiacevoli: rifiutando per primi si evita di sentirsi rifiutati. Tuttavia è una soluzione poco soddisfacente, in quanto l’esperienza penosa della separazione affettiva rimane. Per fortuna io non presi questo “tirare calci” come un semplice messaggio di rottura, ma come una maniera distorta per esprimere un intenso bisogno di continuità affettiva. Per la bambina, la mia reazione fu la prova che il legame di affetto con me era saldo e non soggetto a brusche interruzioni, e così abbandonò il suo meccanismo di difesa: in fondo era proprio quello che cercava. Infatti negli incontri successivi la bambina non presentò più alcun comportamento violento, e con me divenne anzi molto affettuosa.